La cantante spagnola Rosalía, nonostante il successo internazionale, ha rivelato di sentire dentro di sé ‘un desiderio che questo mondo non può soddisfare’, un ‘vuoto’ che identifica come ‘lo spazio di Dio, della divinità’. Ha imparato che questo spazio non può essere colmato da ‘qualcosa di materiale, con un’esperienza, un pasticcio in cui ci si caccia, o persino con relazioni sentimentali’. Questa sua affermazione si inserisce in un contesto più ampio di disagio esistenziale. Un rapporto Gallup indica una diminuzione del disagio a livello mondiale, ma un aumento della percentuale di persone che si considerano sfortunate nei Paesi occidentali, un paradosso dato il calo di disoccupazione e disuguaglianza. Questa ‘sofferenza sociale’ è attribuita alla ‘distruzione dei legami familiari, alla mancanza di vincoli comunitari, al declino dell’appartenenza religiosa’. Tuttavia, l’insoddisfazione di Rosalía è presentata come qualcosa di diverso, non una sofferenza sociale, ma un ‘malcontento infinito’. L’editorialista David Brooks suggerisce che la soluzione risieda nel recupero dei valori tradizionali, persi dagli anni ’60, e che la secolarizzazione e l’individualismo siano le cause di sofferenza. Tuttavia, questa visione è criticata, poiché ‘la malattia non è la secolarizzazione, la perdita dei valori comunitari o del senso di appartenenza’, ma piuttosto l’incapacità di comprendere la natura del vuoto di cui parla Rosalía. Questo vuoto, la sua insoddisfazione, è ‘insito nella condizione umana’ e rappresenta ‘il sigillo del divino’, suggerendo che ‘qualsiasi risposta che non alimenti l’insoddisfazione è disumana’.

La vita umana è costellata da ‘grandi domande’ sul proprio destino e sul senso dell’esistenza, interrogativi che la cultura contemporanea, pur evoluta e tecnologica, fatica a sostenere senza una profonda esperienza di bene. L’uomo moderno, tentando di marginalizzare la questione di Dio, si condanna ad ‘amori provvisori’ e a una disperazione di fondo, poiché solo sentendosi amati si compie la propria umanità. Un fraintendimento cruciale nella società odierna è la confusione tra benessere e felicità. Se il benessere è paragonabile al lavoro di un meccanico che assicura il ‘funzionamento delle diverse cose della nostra vita’, la felicità ‘riguarda il viaggio, riguarda cioè il motivo per cui la macchina esiste’. La società, attraverso la propaganda e la narrazione, spinge a vivere nell’ottica del funzionamento e della performance, trascurando la ricerca di un senso profondo. Questa focalizzazione sul benessere porta alla disperazione di fronte a sofferenza, malattia e morte, poiché ‘basta funzionare per essere felici? Evidentemente no’. Il messaggio cristiano, invece, non promette un semplice funzionamento, ma offre ‘uno scopo per cui la vita valga la pena’, fondato sull’amore. Chi è amato può affrontare gioia e dolore, salute e malattia, persino la morte, perché l’amore conferisce un senso che non viene meno. Una società veramente umana dovrebbe ‘custodire il desiderio di felicità di ognuno’, contrastando la logica del consumismo, che è alimentato dall’infelicità e abbassa tutto alla ricerca del benessere.

Mons. Giovanni Paccosi, di ritorno dall’Assemblea Sinodale di Roma, riflette sulla vitalità della sua diocesi di periferia a San Miniato, caratterizzata da industrie e agricoltura, ma anche da una ‘povertà crescente’. Descrive una domenica trascorsa tra celebrazioni toccanti, come la Messa per lo scoprimento del SS. Crocifisso, dove ‘molti fedeli (quasi nessuno giovane)’ hanno baciato i piedi del Crocifisso miracoloso, e una Cresima a Capannoli con un coro giovanile potente, dove ‘il silenzio c’è stato davvero, intenso, pieno’ durante l’invocazione allo Spirito. Questa è la ‘Chiesa che si scopre debole, ma che vive’, che necessita di ‘vedere e toccare che la vita con Cristo è più umana e più bella’. Il documento sinodale votato è considerato un ‘frutto ancora embrionale’, con critiche sulla ‘forzatura di far diventare richiesta di tutti ciò che era solo di pochi’ e sull’ambiguità di alcune espressioni, in particolare riguardo al ‘riconoscimento’ delle persone omosessuali, che l’autore distingue dall’accoglienza. Ricorda che Papa Francesco ‘afferma che la Chiesa accoglie tutti, ma non accetta che si portino “bandiere”’. La sinodalità è la vera strada della Chiesa, ma non deve ridursi a ‘controversie su questi punti particolari’, bensì focalizzarsi sull’esperienza della ‘presenza misteriosa e concreta di Cristo’ per far rinascere comunione e corresponsabilità. L’impegno futuro della diocesi sarà incrementare ‘la bellezza della partecipazione’ e ravvivare una ‘presenza umile, da poveri, in mezzo ai poveri’.

Carlo III ha incontrato papa Leone XIV in Vaticano, un evento che rievoca lo scisma anglicano di cinquecento anni fa, originato non tanto dalla fede quanto da una crisi della mentalità religiosa e ‘lo smarrimento del senso della presenza viva di Cristo’. L’approccio di Papa Leone XIV alla politica estera si fonda sul sacro, privilegiando ‘i gesti che sulle parole, più sull’estetica che sull’etica’, puntando sull’appeal intrinseco della Chiesa. Al contrario, la politica religiosa di Re Carlo è descritta come sincretista, non ecumenica, focalizzata su ‘l’ambiente, nel creato, nell’armonia e nella fraternità universale’. Il re ambisce a ‘superare la forma storica delle singole religioni in nome di un afflato mistico’ di unità e custodia della terra. Questa differenza di intenzioni rende il gesto di Carlo ‘bello ma ambiguo, forte ma fragile’, poiché la sua identità si fonda sull’assenza di identità specifica. Leone XIV, consapevole che ‘la verità non è un dato circoscritto, ma una Presenza che si muove nella storia’, non polemizza, credendo che anche il ‘gesto più sfocato può essere messo a fuoco dalla luce di Cristo’. La narrazione si conclude con un parallelo storico, suggerendo che, come ai tempi di Enrico VIII, ‘mentre il re portava avanti il suo piano, il leone intanto edificava la Chiesa’.

I giovani hanno accesso a strumenti di intelligenza artificiale che risolvono problemi complessi, generano testi, creano immagini e compongono musica con naturalezza. Tuttavia, la maggior parte degli adulti, inclusi molti insegnanti, vive in un analfabetismo tecnologico che impedisce un dialogo educativo significativo su questi temi. ‘Non si tratta di demonizzare Photomath o applicazioni simili, ma di prendere atto che esistono, che funzionano, che sono parte integrante dell’ecosistema di apprendimento degli studenti. Fingere di non vederle è come pretendere di insegnare geografia usando solo mappamondi, mentre tutti consultano Google Maps.’ Esistono però esperienze innovative in alcune scuole, dove l’IA viene utilizzata per potenziare l’azione dei docenti e personalizzare i percorsi di apprendimento. Queste buone pratiche devono essere sistematizzate e diffuse per guidare il cambiamento, anziché continuare a ignorarlo.

Il Papa sottolinea come ci sia una tendenza a non apprezzare abbastanza i valori e i modelli maturati nei secoli, arrivando persino a pretendere di cancellarne la rilevanza storica e umana. Questo atteggiamento affonda le radici in una trascuratezza di sé, in un ‘tacere di noi’ che rischia di far prevalere un io ripiegato su se stesso. ‘Amare serenamente ciò che si è’ è invece la sfida più ardita, perché solo così si può riscoprire il nucleo della persona e aprirsi all’altro senza paura. Come ricorda don Giussani, ‘la prima conseguenza dell’affezione a Cristo è la scoperta dell’amore, della tenerezza verso se stessi’. Solo un avvenimento di tale portata, come l’Incarnazione, può ridestare l’io e permettere di affrontare le sfide attuali, altrimenti destinate a rimanere luoghi comuni o indifferenza.

I giovani vivono il futuro come una dimensione temporale che accende il desiderio ma che è anche fonte di preoccupazione. Da un lato, il futuro rappresenta per loro la possibilità di realizzare i propri progetti e aspirazioni, come trovare un lavoro soddisfacente e costruire relazioni autentiche. Tuttavia, molti giovani guardano al domani con ansia e paura, a causa di fattori come la pandemia, le crisi economiche, le guerre e il cambiamento climatico. ‘Ho ansia e paura per il futuro – dice un giovane diciottenne –, il mondo è a rotoli’. Questa sottile sfiducia verso gli adulti e le istituzioni accentua il senso di precarietà e incertezza. ‘Che futuro avrò? Che persona sarò? Chi sarò tra 5-10 anni, domani? Troverò una svolta nella mia vita?’, si domanda un giovane ventiduenne. Nonostante ciò, molti ragazzi e ragazze mantengono la consapevolezza del valore della loro età e della possibilità di trasformare la propria ‘bozza’ in un ‘capolavoro’. Il sostegno della famiglia e degli amici può aiutare i giovani ad affrontare il futuro con maggiore fiducia, poiché ‘il futuro non si affronta da soli, ma si può affrontare insieme’. In una società in cui le istituzioni tradizionali faticano a offrire orizzonti stabili, l’amicizia diventa un luogo di fiducia, presenza e dono reciproco, una ‘via relazionale alla fiducia’ in cui il futuro non appare più come una minaccia ma come un cammino condiviso.

Il rilascio degli ostaggi israeliani, dopo un conflitto di due anni, pone una sfida cruciale: smettere di essere simboli per tornare a essere persone. Questi individui sono stati caricati di significati che li hanno trasformati in merce di scambio. Il caso di Eitan Mor è emblematico: la sua stessa famiglia lo considerava sacrificabile per la vittoria militare di Israele, anteponendo la causa alla persona. Questa dinamica di “simbolizzazione” non è confinata alla guerra, ma si ritrova nelle relazioni quotidiane: nei figli contesi, nei partner idealizzati, nei capi visti come pure ingiustizie. Per gli ostaggi liberati, il ritorno alla vita non è automatico; richiede un percorso faticoso per riappropriarsi del proprio desiderio e della propria umanità, come sottolineava don Giussani. Si tratta di ritrovare un bisogno di bene e verità più grande di ogni legame. Eitan Mor, e come lui altri, può così diventare un “segno” che rimanda a una domanda di significato, e non più un “simbolo” che trattiene. La violenza subita può essere trasformata in una domanda di vera libertà.

L’ambasciatore israeliano presso la Santa Sede ha duramente criticato il cardinale Pietro Parolin per la presunta ‘equivalenza morale’ tra l’attacco di Hamas del 7 ottobre e la risposta militare israeliana. Parolin, intervistato dai media vaticani, aveva ricordato il dramma quotidiano dei civili palestinesi, esprimendo dolore per una guerra che ha generato ‘conseguenze disumane’. Israele ha reagito accusando il Vaticano di non riconoscere la differenza tra la legittima difesa di uno Stato democratico e il terrorismo.

Federico Pichetto sottolinea che lo scontro rivela la distanza tra due linguaggi: quello del Vaticano, che considera ogni vita sacra e rifiuta gerarchie di valore nel dolore, e quello dello Stato ebraico, che affonda le proprie radici in una genealogia di sofferenze – dall’esilio babilonese alla Shoah – che Israele interpreta come fondamento della propria identità e del proprio diritto alla difesa. Questa ‘teologia del dolore’, scrive l’autore, rischia però di trasformarsi in giustificazione della violenza.

La lettura religiosa e politica della storia d’Israele appare, secondo Pichetto, come una continua fuga dal confronto con le proprie ferite, una rivendicazione che non tiene conto della sofferenza altrui. È proprio qui che, osserva, le parole di Parolin colpiscono nel segno: la pace non nasce dalla forza o dal risarcimento, ma dalla capacità di riconciliarsi con la propria storia e di riscoprire la presenza di un amore che non ha bisogno di ferire per affermarsi. L’invito del Vaticano è quindi un appello a trasformare il dolore in cura e a riscoprire la pace come dono, non come conquista.

Il volantino di Comunione e Liberazione affronta la drammatica situazione in Terra Santa e in altre aree di guerra, come l’Ucraina, riprendendo le parole di papa Leone XIV e la domanda del Pontefice: «Da cristiani, oltre a sdegnarci, ad alzare la voce e a rimboccarci le maniche per essere costruttori di pace e favorire il dialogo, che cosa possiamo fare?». La violenza in atto è definita «inaccettabile» e viene denunciato il prevalere della logica del più forte sulla forza del diritto internazionale.

Il documento insiste sul valore della pace come cultura che si costruisce dal basso, a partire dalle relazioni quotidiane e da un orizzonte più grande che riconosce un destino comune. La preghiera, indicata dal Papa come prima risposta, diventa intercessione per la pace e conversione dei cuori: da qui l’invito a recitare il Rosario per la pace ogni giorno di ottobre e a partecipare alle veglie comuni, come quella del 22 settembre e quella guidata dal Pontefice l’11 ottobre in piazza San Pietro.

Accanto alla preghiera, il volantino sottolinea la testimonianza di unità e di fedeltà a Cristo, richiamando l’esempio dei religiosi che a Gaza hanno scelto di restare nonostante l’ordine di evacuazione, per continuare a prendersi cura dei più fragili. Questa scelta mostra la forza del perdono e della speranza che scaturiscono dalla Croce. Per i cristiani, contribuire alla pace significa anzitutto vivere la comunione e documentare che un’esperienza di concordia e accoglienza è possibile.