Malessere giovanile: dotti, medici e sapienti?
Il malessere giovanile è al centro di molte analisi, ma troppo spesso viene letto solo in chiave patologica. Citando Gaber e Bennato, Cornaggia osserva come la diagnosi eccessiva rischi di ridurre a nulla la complessità dei giovani. Oggi i sintomi sono più difficili da interpretare, appaiono come rotture più che come domande, e soprattutto si esprimono attraverso un linguaggio criptico, fatto di silenzi e rabbia, o nei testi dei rapper, che parlano di vuoto e incomunicabilità. Gli adulti spesso faticano a comprenderli e i giovani interiorizzano che esprimere emozioni significa turbare, scegliendo così il silenzio.
Il punto centrale non è la malattia, ma la relazione: riconoscere che le emozioni non sono decifrate, che il corpo resta oggetto invece di esperienza viva, e che manca il simbolico, ossia un linguaggio condiviso di significato. L’io, però, resta irriducibile e non può essere spiegato solo dai fattori biologici o psicologici. Per questo occorre coltivare l’autocoscienza e offrire incontri vivi e significativi in cui il giovane si scopra amato e riconosciuto. Non si tratta di risolvere una patologia, ma di aprire la possibilità di contatto con le proprie parti profonde, con la realtà e con il proprio destino.
Cornaggia individua alcune parole chiave per affrontare il disagio: curiosità per l’altro, riconoscimento pieno della persona, irriducibilità dell’io, capacità di stare davanti al dolore, giudizio senza biasimo, vicinanza. È lo stesso metodo educativo indicato da Giussani: partire dall’esperienza e dai bisogni reali, valorizzare le domande, offrire una compagnia significativa che richiami la persona alla verifica di ciò che corrisponde al cuore. La provocazione dei giovani non va medicalizzata, ma accolta come domanda di senso e di amore.
