Pasolini e il ’68: la profezia dimenticata sull’individualismo di massa

Pier Paolo Pasolini emerge come un intellettuale di rara profondità nel Novecento italiano, capace di offrire categorie interpretative per i processi storici, al pari di figure come Croce o Gramsci. Massimo Borghesi lo definisce ‘il Marcuse italiano’, sottolineando come Pasolini abbia veicolato concetti quali l”uomo a una dimensione’, ridotto a mero individuo economico, in modo più incisivo nel contesto italiano. Pasolini intuì precocemente che il progressismo degli anni Sessanta e Settanta era un’ideologia funzionale a una ‘nuova destra tecnocratica’, e che la sinistra emergente dal ’68 era di natura borghese, non proletaria.
A differenza di Marcuse, che si mostrava ‘infatuato della contestazione giovanile’, Pasolini era ‘totalmente disincantato’, riconoscendo nel ’68 una ‘rivolta della borghesia, non del proletariato’. Questa contestazione, secondo Pasolini, mirava a distruggere i ‘vecchi valori cristiano-borghesi del dopoguerra’, generando un ‘individualismo di massa egoistico e solipsistico’. Egli auspicava un ‘nuovo illuminismo che non tagliasse le radici popolari’, poiché il progressismo tradizionale, assimilato all’antifascismo, era diventato un’arma spuntata, funzionale al nuovo potere. Pasolini, negli ‘Scritti corsari’, ammoniva sulla necessità di rimettere in discussione i presupposti di illuminismo e razionalismo, poiché il ‘nuovo potere consumistico e permissivo si è valso delle nostre conquiste mentali per costruire la propria impalcatura di falso laicismo, di falso illuminismo, di falsa razionalità’, culminando nella ‘sacralità del consumo come rito e della merce come feticcio’.